ri-proponiamo un testo già apparso altrove in passato
Era martedì grasso, il resto dell’Istituto era una festa totale, coriandoli, maschere, vino e facce allegre ma la professoressa, imbalsamata dentro una poco autentica corteccia osteggiante sicurezza, continuava la sua lezione.
Ma a un certo punto esordì: “cosa ci trovate di così eccezionale nel carnevale? È una ridicolaggine, un retaggio culturale, una banalità, una presa per il culo! Generazioni di vite asservite al rigido macchinario della società che per quattro giorni l’anno si prendono il lusso di ribaltare tutto, dallo stomaco ai ruoli, e per una manciata di giorni, respirare, con
l’assurda consapevolezza di dover poco dopo tornare a chinare la testa e vedere i sistemi oltraggiati, farsi più grandi e tornare a vincere sulle loro vite… Ma per voi è solo una sbornia in più…”
Gli altri non avevano capito o non erano interessati: avevano la testa praticamente già dentro la sbornia che quella donna citava, ma per me era stato dissacrante nella giusta maniera per ricominciare a elaborare un argomento che era stato fino a quell’istante, immune da ogni analisi. Ero stupito, in dieci secondi di odio vomitato c’erano abbastanza ragioni per destabilizzare una mia radicata convinzione: il Carnevale.
In ogni cultura il carnevale è esternazione popolare e spontanea, che nasce come una provvisoria forma di anarchia, intesa come assenza di regnante, di freni inibitori, di relazioni sociali gerarchizzate, di autorità, di regole… in definitiva un fitto elenco di virtù, dal mio punto di vista.
Ma la vera questione era lì, nella definizione stessa del Carnevale, e accanendomi sull’opportunità della seconda parte, tralasciavo la prima, che era invece il vero problema: forma di anarchia, bene, ma provvisoria.
Forse in quel discorso non c’erano solo torti. La peculiarità provvisoria delle manifestazioni carnascialesche, era ciò che rendeva quella follia tollerabile: la possibilità di circoscriverla.
I signori lasciavano che i servi ridessero delle loro imitazioni, i prelati, che il popolo schernisse le tradizioni religiose… ma solo perché erano perfettamente coscienti che pochi giorni dopo gli stessi uomini e le stesse donne sarebbero tornati a servire, a pregare, a genuflettersi.
Il sistema si sarebbe sì fermato, ma per pochi giorni, poche ore, e se le notti si fossero fatte piccole, se le bottiglie fossero finite più rapidamente, se i posti di lavoro fossero stati lasciati vuoti sarebbe stato lecito solo purché rimanesse tutto entro certe limiti, compresi quelli temporali.
Era questa l’unica possibilità perché il potere concedesse al popolino una valvola di sfogo: la certezza che dopo poco, ogni cosa sarebbe finita, la temporalità.
Ero colpito: il Carnevale spontaneo e popolare, da questo punto di vista non era altro che un permesso speciale, una deroga, il lasciar saltare la molla che pesava sulle schiene della gente ma purchè si riafferrasse al volo e si potesse in breve ricollocarla sulle stesse schiene.
Mi sembrava tutto più triste, ma chiaro.
Poiché così era prima e lo era pure allora [come lo è adesso] ero giunto alle mie conclusioni, ridicole quanto decise: Carnevale permanente o niente.
Un ribaltamento totale degli schemi, delle gerarchie, dei ruoli sociali, un annientamento assoluto dei limiti umorali e sociali, personali e pubblici, una gioia permanente e coriandoli sempre, e ancora teatro di strada, spontaneità e dissacrante alternativa del potere, o niente, nessuna presa per il culo.
Insomma proclamare lo stato di Carnevale permanente come rivincita sulle costrizioni societarie, sui limiti invalicabili, sui freni inibitori frutto di retroterra culturale e perbenismo cattolico, sul potere costituito, sulla serietà di facciata e il rispetto dei ruoli.
Ero sicuro: quell’anno niente maschera, tanto ero mascherato come gli altri da sempre e per sempre. Da quel momento avrei cominciato a prendere per il culo loro, quelli così bravi a riafferrare la molla, e non ho ancora smesso.