CHImorte

(a proposito abbiamo letto I Beneamati avieri” su Finimondo)

Da alcune settimane mi ronza in testa uno dei proverbi molussici cari a Günther Anders: «Nessun artigliere torce un capello a una mosca». Con il suo humour nero il noto filosofo intendeva così sottolineare come il progresso tecnologico sia riuscito ad anestetizzare gli orrori della guerra, deresponsabilizzando i suoi autori. A differenza dei soldati dei reparti di fanteria, costretti ad imbrattarsi mani e cuore nei combattimenti corpo-a-corpo con il nemico, gli artiglieri operano a distanza. Accudendo solo al loro strumento, non assistono direttamente ai suoi risultati: non vedono il sangue che versano, non odono le urla di dolore, non sentono il fetore dei cadaveri. Ecco perché all’epoca della prima guerra mondiale, a Breslavia, venivano definiti «i nostri beneamati artiglieri». Non erano considerati massacratori in divisa dagli occhi iniettati di odio feroce, ma semplici tecnici addetti alla manutenzione di un macchinario.

Se questo è vero per gli artiglieri, figurarsi per gli avieri! «Finanche meno inclini all’odio di loro, furono i piloti dei bombardieri… soprattutto perché nei loro bombardamenti notturni dal cielo di fatto non combattevano più, bensì “unicamente” annientavano; e per l’esattezza non i loro consimili, ma installazioni, città, popolazioni», annotava Anders il quale ricordava poi la risposta del pilota statunitense che sganciò la bomba atomica su Hiroshima a cui aveva chiesto se in quell’attimo avesse odiato a morte i giapponesi: «perché diamine avrei dovuto odiarli?».

Nell’uomo antiquato atto e affettività sono irrimediabilmente separati, dissociati. Si uccide senza odio. Dev’essere per questo che la notizia della morte di quattro piloti dell’areonautica militare, scontratisi fra loro a bordo di due Tornado lo scorso 19 agosto, ha suscitato tanta emozione. Le due pattuglie di avieri stavano sorvolando rasoterra una zona vicino ad Ascoli Piceno, fino a un metro di distanza l’uno dall’altro. A quella “altezza”, il Tornado pare sia l’aereo più veloce del mondo. Ve l’immaginate? Si trattava di un addestramento di guerra preparatorio in vista delle esercitazioni Nato previste per il prossimo autunno a Ghedi.

Eppure, secondo una diffusa percezione, non erano affatto militari che si esercitavano a fare la guerra. Non si stavano addestrando a meglio massacrare. No, erano beneamati avieri. A detta dell’ex capo di stato maggiore dell’areonautica militare, lo stesso generale che a suo tempo ha presieduto la commissione d’inchiesta per la strage del Cermis, «l’unico sentimento che ha legittimità di esistere dovrebbe essere quello della riconoscenza perché questi giovani si stavano allenando per mantenere alto il prestigio delle forze armate italiane».

E la propaganda mediatica, non si è dilungata sulla figura della giovane ragazza bionda che pilotava uno dei Tornado (fulgido esempio di parità dei diritti all’interno dell’esercito)? Povera ragazza, a cui un tragico incidente ha impedito di perseguire una nobile carriera e farsi una famiglia! Ai funerali di Stato dei quattro piloti, tenuti in un hangar della base militare di Ghedi, hanno partecipato commossi duemila imbecilli pronti a giurare che nessun aviere torce un capello ad una mosca. Fra questi, molti, moltissimi civili.

Ed io non riesco fare a meno di pensare ancora, e ancora, alle parole di Anders: «chi non odia l’infame, non solo dà prova di viltà, ma si rende anche sospetto di essere complice dell’infame. E, con stupore, un mattino scoprirà di essere davvero complice dell’infame, di passare per suo amico e di non poter più tornare indietro; e in questo modo anche lui si rende odioso e sarà giustamente odiato».

[8/9/14]

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