[Cronaca Sovversiva, anno III, n. 26, 1 luglio 1905]
Chi di voi, o compagni operai, non ha provato come una stretta al cuore sentendosi dire da un incaricato, da un capo officina: Non c’è più bisogno di voi? In quel momento un sudor freddo ha invaso il vostro corpo, le vostre labbra non hanno potuto pronunciare una parola, la vostra mente è rimasta come offuscata. Un pensiero vi ha oppresso, una triste realtà, vi ha abbattuto: essere senza lavoro!
Chi non ha conosciuto questa situazione terribile del riposo forzato? È per amor del lavoro, come si pratica nella società borghese, che si prova un dolore così acuto il giorno in cui si è licenziati?
Oh no! Non è proprio per amore d’eccessive fatiche, che rompono le braccia, consumano le membra e ottenebrano il cervello, non è perché si sia sentito il desiderio, anzi il bisogno di riposo, che siamo addolorati il giorno in cui restiamo disoccupati; ma è perché colla disoccupazione si vede e si sente venire un periodo di esistenza terribile, di lotta contro la fame.
Alzarsi alla mattina prestissimo, con le membra ancora indolenzite dalla fatica del giorno avanti, per correre al lavoro nell’ora stabilita, a riprendere la monotona e pesante bisogna, sotto la sorveglianza severa e pungente dei capi, restarvi fino a sera, non avendo che una breve interruzione a mezzogiorno, per prendere un po’ di cibo spesso scarso e non mai gustoso, ed uscire per rincasare sfinito – ecco il genere di vita che si rimpiange, non appena si è disoccupati. Non mai un’ora di pace, di contento, non mai un po’ di letizia divisa colla famiglia, dalla quale si resta sempre separati, poiché i brevi momenti in cui si rimane a casa alla sera, per prendere un ristoro, non possono bastare a soddisfare il desiderio, il bisogno o il dovere, come predicano i moralisti, della intimità della famiglia.
Spesso anzi, il padre, rincasato tardi, non può abbracciare i figli che sono già nel loro povero giaciglio; talvolta non trova la moglie al povero desco, perché il diverso orario di lavoro li separa nell’ora del riposo e del cibo.
E quand’anche si trovino tutti, la sera, alla stessa ora, attorno allo stesso tavolo tarlato, per la solita scarsa cena, nessuna voce di gaiezza può risuonare, la stanchezza e la miseria paralizzando ogni slancio d’affetto.
Questa vita di stenti e di privazioni, che accenno di scorcio, ma che tutti i lavoratori conoscono per dura prova, non può non far desiderare un periodo di riposo, di cui si sente tanta necessità. Eppure, quando il lavoratore è messo a riposo dal padrone, è per lui uno schianto terribile.
A capo chino, come se sulla sua coscienza pesasse un delitto, esce dall’officina per avviarsi verso casa. Ma il suo passo è lento, sulla sua fronte rugata dai dolori sofferti e dal presente rovescio si legge una grave preoccupazione, il suo sguardo erra senza posarsi su nulla, come per sfuggire la vista di sgradevole cosa.
Passa in mezzo alla gente senza vederla, spesso urtato da un passante frettoloso, passa lungo la via, le cui ali di case si stendono e si prolungano, coi ricchi magazzini nei quali sono esposti tutti i generi di consumo, tutti gli oggetti necessari, tutte le cose che non ha mai potuto procurarsi sufficientemente e che domani gli mancheranno affatto.
Come farà a dare alla famiglia la dolorosa notizia della sua disoccupazione? Qual forza lo sorreggerà dinanzi alla costernazione che va a portare nella sua casa?
E il suo passo si allenta ancor più, nel suo petto sente come una trafittura e un maggiore scoraggiamento lo invade. Alla sua mente si presenta il quadro della situazione coi più foschi colori. Domani correrà di qua e di là a domandare lavoro, come un mendicante chiede l’elemosina; sarà rifiutato, respinto. L’abbondanza di braccia, la scarsità del lavoro gli fanno prevedere il
lungo, doloroso calvario che lo attende. E se malgrado il suo bisogno non trova lavoro, come farà a vivere, cosa darà per cibo ai suoi figli, ai suoi vecchi, ai suoi cari di famiglia? Ecco la ragione del suo profondo dolore, del suo immenso sconforto!
È la fame che gli si para dinnanzi in tutto il suo squallore e con tutte le sue torture, la fame che è il pungolo con cui la classe capitalista flagella la classe lavoratrice e la mantiene schiava. Il lavoratore è in questa dura e terribile situazione: o logorare la salute per eccessiva fatica, senza poter ricavarne abbastanza profitto per soddisfare i bisogni della vita, o trovarsi affamato dalla disoccupazione.
E ogni giorno, questa condizione del lavoratore va aggravandosi, ogni giorno, aumenta il numero dei disoccupati. Un borghese si sbarazza d’un operaio come d’un paio di scarpe vecchie e non si preoccupa di tutti i mali a cui lo condanna insieme alla sua famiglia. Che importa ai capitalisti se migliaia di diseredati soffrono in silenzio?
I lavoratori messi sul lastrico chinano il capo e non guardano alle ricchezze che li circondano e non pensano che quanto si espone sotto i loro occhi è frutto delle loro fatiche e che essi hanno quindi diritto di usarne per vivere. Finché la schiera degli sfruttati ed affamati rimane debole e dispersa o la paura dei gendarmi la trattiene resterà la serva, la licenziata dal consorzio di chi ha diritto alla vita. Bisogna finalmente che la classe lavoratrice si unisca e si renda conscia dei suoi diritti e della sua forza e pronunci essa la parola del licenziamento pei padroni.
Sì, siano essi i licenziati, essi che sono un ingombro e un danno; siano i lavoratori che dicano ai padroni, ai capitalisti: Non abbiamo più bisogno di voi!
da finimondo.org