Un nuovo inizio
martedì 24 febbraio 2009 – ANSA
"ROMA – Il
premier Silvio Berlusconi formalizza il ritorno del
nucleare in Italia ("frenato negli anni ’70 dal fanatismo ecologico di
una parte politica”), illustrando l’accordo di cooperazione energetica
appena siglato, nel corso del vertice italo-francese a Villa Madama,
insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy.
E’ il primo passo di "una politica nucleare
comune" tra Italia e Francia in una "prospettiva paritetica e di lungo
periodo", sottolinea Berlusconi spiegando che secondo l’accordo
l’Italia "collaborerà alla realizzazione di altre centrali nucleari in
Francia e in altri Paesi e costruirà centrali nucleari" anche sul proprio territorio."
Quando Berlusconi si riferisce al fanatismo ideologico di una parte politica si riferisce al referendum abrogativo dell’87, con l’80% dei voti contro il nucleare [leggi]
Una centrale anche nel Piceno
Essere contro il nucleare non significa solo essere contro il nucleare nella propria provincia, almeno per noi [leggi machete n° 3]. Tralasciando l’ovvia considerazione che un disastro nucleare a Caorso avrebbe ricadute per tutti, essere contro il nucleare significa essere contro un modello di sviluppo, contro una specifica politica ambientale e di sfruttamento del territorio, contro la lobby energetica e i suoi obiettivi, contro un sistema intero.
Certo che avere una centrale nucleare a pochi km da casa, significa ben oltre.
E se non fosse bastata la soffiata di Boccalarga Ciccanti [il kossiga del piceno], ai primi di Marzo, arrivano le conferme anche da fonti ufficiali: la zona Sentina è tra le prime scelte!
"Il Governo sotto la guida di un’ agenzia diretta [guarda la nuova ri-organizzazione delle agenzie] da Scajola, vorrebbe
riaprire i 4 vecchi siti, che sono Trino Vercellese (Vercelli), Caorso
(Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), e costruirne altri 4 da
scegliere tra Oristano, Palma (Agrigento), Mola (Bari), San Benedetto
del Tronto (Ascoli Piceno), Ravenna, Scarlino (Grosseto) e Fossano
(Cuneo).
alleghiamo di seguito un articolo che ripercorre una delle battaglie di Montalto di Castro, contro la costruzione di una centrale nucleare
Alle cinque del
mattino qualcuno si alza e va al microfono del pullman. Ci sono dei
blocchi, bisogna trovare un’altra strada. Il pullman accosta al lato
della strada, subito imitato da altri che ci stanno dietro. Si
consultano freneticamente cartine alla ricerca di un passaggio che ci
faccia girare al largo dalla polizia. Non c’è. Bisogna proseguire a
piedi. Si fa passaparola con le radio, saltiamo giù. Io ho freddo e
sonno, non ho dormito un cazzo durante il viaggio, tenuto sveglio da
quelli che cantavano e ridevano per tutto il tempo. Io non riesco mai a
divertirmi prima, troppa tensione. Se rinasco, penso, rinasco di
destra. Meno sbattimenti.
Camminiamo nei campi con il buio, al
seguito di qualcuno che dice di sapere la direzione. Il terreno sotto
gli anfibi è umido e pesante. Dietro di noi la fila si ingrossa un po’
alla volta. Ci contiamo. Hanno fermato metà dei pullman all’uscita
dell’autostrada. Saremo cinque o seicento. I suoni sono quelli di un
plotone in marcia nella guerra ’15-’18, passi e del fiato pesante.
Verso le sei, ritroviamo una strada asfaltata scavalcando una
recinzione e, poco più avanti, appare un’ombra nera sullo sfondo. E’ la
Centrale Nucleare di Montalto di Castro. Costruenda, in realtà.
La
strada dove siamo è quella che fanno i camion degli operai che ci
lavorano. Noi dobbiamo arrivare prima di loro e bloccarli, per almeno
un giorno. E’ l’ultima manifestazione di una serie: Caorso, Trino
Vercellese, il Pec del Brasimone. E’ stato un anno di campeggi
antinucleari e cortei, soprattutto di scontri. La polizia carica
sempre, il gioco è resistere il più possibile senza farsi massacrare.
Quando siamo a cinquecento metri dai cancelli, la notte sparisce
bruciata dalle fotoelettriche. Sono due, enormi, piazzate all’interno
del perimetro. Finalmente vediamo. Davanti alla centrale ci sono
centinaia di celerini in tenuta antissommossa, dietro i cancelli decine
di blindati. Ci aspettavano, naturalmente.
Un dirigente con il
megafono ci chiede di liberare la strada. Noi ci guardiamo. Sotto le
luci impietose sembriamo ancora più pochi. Per lo più ragazzi sui
venti, da tutta Italia. Molti napoletani, moltissimi laziali, un
gruppetto nutrito anche da Milano, tirato su dai collettivi autonomi e
dagli anarchici. Io sono con il collettivo di Via dei Transiti, una
casa occupata dagli anni settanta, dove qualche anno dopo andrò a
vivere. Continuiamo a camminare. Ho lo stomaco stretto. Parte una
sirena, che sembra quella di una fabbrica, poi la celere carica. Gli
scontri avvengono nei campi, mentre il cielo rischiara. Lacrimogeni da
una parte, dall’altra pietre e zolle di terra. Fiondate con le biglie.
Io sono una pippa negli scontri, lo sono sempre stato. Più che altro
faccio numero. Corro da una parte all’altra, guardo. Un ragazzo accanto
a me si prende un lacrimogeno nel petto e sbocca sangue, una fila di
celerini carica nei campi e si disperde sotto una pioggia di pietre che
rimbalzano sui caschi e gli scudi. Urla, casino. Ci disperdiamo nei
campi. Dopo un’ora, ci ritroviamo sulla strada principale, contusi e
ansimanti. La celere è ferma tra i campi e la centrale. Loro sembrano
ancora in forma, noi siamo al lumicino. Un funzionario della questura
si incontra con uno dei Volsci. Potete rientrare in città, dicono, ma
niente casino. Altrimenti sono cazzi amari.
I cazzi arrivano lo
stesso. Mentre camminiamo verso la tangenziale, ci caricano ancora a
freddo. Non ne avevamo prese abbastanza. Ci disperdiamo in gruppetti,
mentre i celerini ci abbattono a manganellate. Qualcuno scappa sui
binari della ferrovia, qualcuno corre in mezzo alle auto sulla
provinciale, qualcuno cerca di bloccare le corse dei blindati, che
piombano in mezzo a noi con violenza e lacrimogeni, mettendo di
traverso sulla strada i sostegni delle recinzioni divelte. La maggior
parte corre e grida. Una mattanza. Se qualcuno fosse passato in
elicottero da quelle parti, avrebbe visto sui campi e la strada aprirsi
strane stelle marine formate da celerini, con al centro un manifestante
appiattito dalle bastonate.
Arriviamo nella piazza del paese a
piccoli gruppi. Ci contiamo, siamo la metà. Corrono voci di ogni
genere: arresti di massa, torture, fucilazioni. Qualcuno dice che un
grosso gruppo di manifestanti è bloccato dietro un autogrill, bisogna
andare a vedere se è vero, chiederne la liberazione. Chi ci va? Io. Ho
la faccia da bravo ragazzo, me lo dicono sempre. Magari non mi notano.
Arrivo all’autogrill, a un chilometro dal punto di raccolta. Ci sono
solo pullman vuoti. L’atmosfera è surreale. La tangenziale è chiusa al
traffico, non si muove una foglia. Di manifestanti bloccati non se ne
vedono. Scoprirò parecchi giorni dopo che il gruppo di quelli che
mancava aveva deviato lungo un’altra strada, arrivando sano e salvo in
paese. Decido di controllare dentro l’autogrill, da vero idiota.
Capisco di essere tale appena passo le porte scorrevoli. Dentro ci sono
solo divise che si riposano dopo gli scontri. Avessi messo un neon
sulla testa sarei stato meno visibile. Cerco di uscire, non arrivo
neanche alla porta. Mi prendono e mi caricano su un blindato. Chi mi
arresta ha un occhio nero e mi fa vedere la visiera del casco. E’
forata da una biglia di metallo. Sei stato tu, mi chiede? Vorrei dire
la verità e rispondere di no. Ma mi sembra una vigliaccheria, nei
confronti di quelli che l’hanno fatto, e con i quali, verosimilmente,
ero complice. Per cui sto zitto. Aspetto le mazzate. Che non arrivano.
Loro sono stanchi, io innocuo.
Il blindato passa i cancelli della
centrale, dentro la quale, in un prefabbricato, è sistemata una sorta
di questura mobile. I celerini mi tirano giù di peso, letteralmente non
tocco terra e mi sbattono in una stanza dove ci sono un’altra decina di
manifestanti arrestati durante le cariche. Sono tutti malmessi. Tagli
in testa, dita rotte, lividi in faccia. Al confronto, io sono un fiore.
L’unico che conosco è Daniele, con una mano fracassata. Lo metterò nei
miei libri anni dopo, poi diventerà parlamentare. Visto che non
sappiamo la nostra situazione fingiamo di non esserci mai incontrati
prima. Anche tu sei di Milano, ma guarda.
Un graduato ci esamina. Ha
i baffi e la stazza del Sergente Garcia, e non gli stiamo molto
simpatici. Visto che sono sano mi toglie gli occhiali e mi prende a
sberle fino a quando un superiore gli dice di piantarla. Aspettiamo.
L’atmosfera si rilassa un po’, ci fumiamo una sigaretta. Sentiamo,
dalle altre stanze, le radio che raccontano di un corteo pacifico in
paese, di un presidio, le voci dei blindati che comunicano le loro
posizioni. Poi ci consegnano un verbale di arresto. Sul mio c’è scritto
che mi hanno preso davanti alla centrale, con un bastone in mano e una
fionda in tasca. Ci ammanettano. Mi stupisco di quanto siano leggere.
Le guardo sui miei polsi mentre mi fanno salire sul cellulare. E’ una
strana sensazione. Mentre il cellulare mi porta sino al carcere, penso
a quello che sto perdendo. Una vita normale, probabilmente. La
possibilità di passare ancora per bravo ragazzo. Di fare la carriera
che mia madre aveva sperato per me, quando mi ero iscritto a Scienze
Politiche.
Mia madre che scoprirà di quello che mi è successo dal
quotidiano "La Provincia". Titolo: E’ cremonese, l’autonomo arrestato a
Montalto. Le arriveranno telefonate imbarazzate da parenti e colleghi.
Valle a spiegare che era un corteo che doveva essere pacifico. Il
cellulare mi scarica nel carcere di Civitavecchia. Il portone si chiude
sulla mia vecchia vita. Era il 1986. Un anno dopo, un referendum
sancirà l’abbandono del nucleare da parte dell’Italia.
Adesso, pare, si ricomincia da capo.